Ho iniziato a seguire gli articoli pubblicati dal professor Giulio Cossu dopo aver letto una intervista quasi 4 anni fa (10 dicembre 2004) pubblicata su Aduc.it, nella quale il già direttore dell’Istituto di Ricerca sulle Cellule Staminali del San Raffaele di Milano alla domanda del giornalista Valerio Federico “Giulio, quando inizia la vita per te?” rispose “La vita inizia, come sostiene un mio amico, quando i figli vanno all’Università ”. Dopo l’intervista effettuata a Beike mi è sembrato doveroso porgere qualche domanda a uno dei massimi esperti italiani sulle cellule staminali. In breve il professor Cossu, oltre alla posizione di direttore al San Raffaele, è Professore di Istologia ed Embriologia, II° Facoltà di Medicina e Chirurgia. Università di Roma “La Sapienza”, Presidente Associazione Italiana Biologia cellulare e del Differenziamento (ABCD) e dal 1997 Membro dell’EMBO (European Molecular Biology Organization). – Come si raffronta con tutte quelle aziende che mandano all’estero pazienti per essere curati con le cellule staminali? Beh, non sono una specie di private clinic bounty hunter, ma quando i pazienti mi chiedono direttamente o indirettamente tramite delle associazioni delle informazioni, io cerco di dare dei criteri semplici che possano essere seguiti dai pazienti con l’aiuto del medico curante, per poter valutare nei limiti del possibile l’attendibilità di questi posti. Le faccio un esempio, per far capire a tutti cosa intendo: già se nel sito internet compare che le cellule staminali impiegate sono in grado di curare tutte le malattie, questo è un segno molto sospetto perché non esiste una cellula staminale che può curare tutte le malattie possibili e immaginabili e quindi è plausibile che ci sia qualcosa che non va. Un secondo parametro, ugualmente semplice da individuare, è controllare se viene indicato quali sono le cellule staminali: se sono embrionali, se sono fetali, se vengono dal cordone ombelicale, se sono umane, e così via. Sapere quindi l’origine di queste cellule. La terza cosa è verificare se il responsabile del centro ha pubblicato dei lavori, non a qualche congresso in posti termali o ameni, ma in riviste con dei revisori internazionali, perché ciò significa che lo studio è passato al vaglio di esperti e quindi attendibile. Se questi parametri vengono a mancare, la probabilità che si tratti -non dico di una truffa- ma di un’operazione ad alto rischio sono molto alte. – Visto che sono state citate le staminali prelevate da cordone ombelicale hanno veramente le stesse potenzialità di quelle embrionali? No. Le staminali che vengono dal cordone ombelicale sono cellule fondamentalmente emopoietiche, ovvero sono capaci di formare gli elementi figurati del sangue: globuli rossi, globuli bianchi e piastrine. Ci sono in letteratura studi che dicono il contrario (quindi che queste cellule possano fare altro), ma si è visto che lo fanno con una frequenza talmente bassa che a tutt’oggi risulta impensabile che uno riesca a generare nuovi neuroni partendo da cellule che al 99% fanno cellule del sangue e magari su 1000 cellule fanno un unico neurone. Ciò che si vorrebbe è che a fronte di un trapianto ad esempio di 100 cellule, per avere un effetto benefico almeno 80-85 cellule debbano diventare la cellula voluta, non altre cose. – Visto che le iniezioni di cellule staminali vengono effettuate in diversi Paesi esteri, pensa che in qualche modo possano quantomeno alleviare i sintomi di certe malattie? Ci sono dimostrazioni in tal senso? Che io sappia no. Io ho fatto parte di una commissione nominata dalla società internazionale per la ricerca sulle cellule staminali che ha nominato una task force per produrre delle linee guida che servano ai medici, ai ricercatori, ai pazienti e anche all’opinione pubblica per capire quali sono i passi necessari per portare una ricerca dal laboratorio al letto del malato e questi passi sono codificati in modo chiaro. Non c’è traccia siano stati, almeno in parte, seguiti nelle cliniche private di cui stiamo parlando. Non voglio dire che siano tutti truffatori, però chi sotto la spinta della ricerca di una cura per una malattia che al momento non ne ha, di fronte alla tragedia cerca ogni soluzione. Io stesso se dovessi trovarmi dall’altra parte ci penserei, però bisogna mantenere la lucidità sufficiente per sapere ciò che si sta facendo. Un’idea più chiara l’abbiamo su quello che succede nel cuore: dopo un evento di infarto quasi tutti i cardiologi che avevano a disposizione una qualsiasi fonte di cellule hanno provato a iniettarle nel cuore per vederne gli effetti. Moltissimi studi clinici si sono conclusi con risultati positivi evidenziando un miglioramento, ma ciò che succede non è attribuibile direttamente alla staminali, perché se queste provengono dal midollo osseo, che è come se provenissero dal cordone ombelicale (sono la faccia adulta dello stesso processo), queste cellule non formano nuovi cardiomiceti e non vanno a sostituire il tessuto morto a causa dell’infarto, ma una volta nel cuore liberano dei fattori che stimolano la formazione di nuovi vasi e producono sostanze che inibiscono la morte delle cellule circostanti e quindi svolgono un’azione benefica sul tessuto che è sopravvissuto. Il fenomeno descritto che vale per il cuore potrebbe valere per quasi tutti i tessuti. Ciò spiega perché in alcuni casi l’iniezione di cellule staminali, non necessariamente destinate a formare il tessuto desiderato, portano un lieve beneficio dovuto quasi sempre alla produzione di sostanze che risultano benefiche per il tessuto malato o non ancora completamente morto. Se però le cellule dovessero diventare cardiomiociti, neuroni dopaminergici o epatociti, a quel punto insorgerebbe il problema immunologico, perché si presume, anche se qui la ricerca si dibatte ancora, che le staminali godano di un privilegio immunologico e che quindi non siano “viste” dal sistema immunitario. Il problema sussiste perché nella maggior parte dei casi si tratta di cellule prelevate dall’organismo di qualcun altro, non certo del paziente. Quindi se il loro scopo è diventare neurone o fibra muscolare, queste cellule esprimeranno i loro antigeni di istocompatibilità e visto di conseguenza dal sistema immunitario e successivamente distrutto. A quanto mi risulta nessun paziente in queste cliniche effettua una terapia di immunosopressione in aggiunta al trapianto di staminali. Appare ovvio che ci siano una serie di dubbi non chiariti e che non si possano evincere da quanto riportato nei siti web e che quindi lasciano molto perplessi. – Questo tipo di iniezioni di staminali, a prescindere dalla loro efficacia, possono creare problemi alla salute? Sì, possono creare due tipi di problemi: il primo è quello appena discusso, ovvero se per caso dovessero creare nuove cellule sarebbero rigettate, e il secondo è che se invece non si differenziano (questo vale soprattutto per le staminali embrionali) e continuano a proliferare possono formare tumori chiamati teratomi o teratocarcinomi, tumori maligni -anche molto seri- che mettono a rischi la vita del paziente. Risulta evidente che non si tratti di una terapia esente da rischi, magari vengono fuori 4 o 5 anni dopo e quindi risulta difficile se non impossibile metterli in relazione con le iniezioni di cellule. È chiaro che se tutto questo fosse fatto in una clinica ufficiale ci sarebbero molte regole: noi ad esempio le stiamo ancora stilando da un trial sulla distrofia muscolare durato già due anni, affinché le cellule ad esempio siano rintracciabili anche in un secondo momento con dei marcatori molecolari. Così facendo in un futuro si potrebbe prelevare la massa tumorale e verificare se effettivamente è stata generata o meno dalle iniezioni di staminali. Se queste semplici regole vengono a mancare è evidente che tutto diventa confuso e ad alto rischio per la salute del paziente. – Visti i suoi numerosi articoli pubblicati sulla distrofia muscolare, cosa consiglierebbe a un malato? Guardi, io ricevo quotidianamente email, telefonate e lettere da pazienti che mi chiedono cosa devono fare. Io premetto che non sono un clinico e quindi non ho accesso diretto ai pazienti: consiglio loro di parlare con il neurologo che li segue e visitare i siti, non delle cliniche miracolose, ma quelli delle associazioni come Telethon, ParentProject, e così via, che si occupano di distrofia muscolare e in cui si trovano moltissime informazioni, non solo su come risolvere i problemi di tutti i giorni che comunque non sono poca cosa, ma anche su dove sta andando la ricerca. In realtà questo è un momento molto promettente, perché ci sono tante diverse strade, e le staminali sono solo una di queste, che stanno finalmente arrivando alla sperimentazione terapeutica. Come spesso accade in medicina è difficile che ci sia una soluzione uguale per tutti. Ad esempio ora c’è una sperimentazione clinica di fase 2 su una molecola chiamata PTC 124, una molecola che permette di riparare il danno del DNA e quindi far fare una distrofina completa solo per pazienti che hanno una specifica mutazione. Questi rappresentano solo i 10-15% della popolazione di malati, gli altri no. Appare chiaro che i genitori, assieme al neurologo, devono guardare cosa propone la scienza medica al momento e farsi consigliare per vedere quali terapie sono più appropriate per il loro bambino. Nella maggior parte dei casi si deve comunque continuare a seguire la terapia standard e rimanere in contatto con il proprio medico. Insomma, non esistono cure miracolose. In realtà le uniche due conseguenze di questo atteggiamento sono una profonda disillusione e un grave danno economico, perché questi trattamenti sono davvero molto costosi e viene da pensare che il lucro sia uno degli elementi non secondari nella elaborazione di queste strategie terapeutiche. I pazienti che noi trattiamo in tutti i trial clinici ufficiali che io sappia non devono pagare una lira di tasca loro; sono scelti infatti perché sono quelli che si presentano più adatti per quel tipo di cura e quindi le considerazioni economiche non devono entrare. Chi chiede 20-30 mila euro per delle iniezioni di cellule staminali che non si sa da dove vengono, non si sa quanto durano, non si sa cosa fanno, ha un comportamento perlomeno sospetto. – In Italia la ricerca è abbastanza dibattuta per la mancanza di fondi, come valuta la realtà italiana? Questo non è proprio una domanda da poter rispondere in poco tempo. In generale nel nostro Paese la ricerca soffre di una serie di problemi cronici, secolari direi, e ci prenderebbe troppo tempo esaminarli tutti. Per sintetizzare, al momento i problemi sono: pochi fondi e soprattutto molto mal distribuiti. Se solo si migliorassero i criteri di distribuzione ci sarebbe già un miglioramento. Poi un punto importante da considerare è l’ambiente dove la ricerca si svolge ed è chiaro che le nuove istituzioni che sono in grado di reclutare persone dall’estero e capaci di creare un ambiente dinamico sono favorite rispetto alle Università italiane, che comunque sono legate a una serie di regole e schemi piuttosto rigidi. Faccio un esempio: se all’Università di Roma ci fosse un bravissimo biologo molecolare, un altrettanto bravo endocrinologo, un bravissimo clinico e un bravissimo fisiopatologo, tutti che si occupano di insulina e diabete, ad Harvard nel giro di un mese farebbero un Diabetes Institutes e sposterebbero tutto questo personale nel centro, chiamando anche altre persone. All’Università di Roma questa pratica sarebbe di fatto impossibile. La nostra struttura è poco agile e non può niente nei confronti a questi nuovi centri che di fatto hanno una produzione migliore. Per chiudere, quello che riguarda la ricerca sulle staminali adulte, perché quella sulle embrionali è stata resa molto difficile dalla legge 40, finché è stata in una fase esplorativa è andata bene. Noi abbiamo prodotto studi di grande rilievo. Mi piace citare Michele De Luca, che è riuscito a portare a termine il primo trial di terapia genica su una malattia molto grave della pelle che si chiama epidermolisi bullosa, in cui l’epidermide si stacca dal derma, e questo lo ha fatto tutto in Italia ed è stato il primo caso al mondo, e lo ha fatto con fondi infinitamente inferiori a quelli disponibili in California o ad Harvard. Finché c’è una parte di creatività nella ricerca italiana, senza cadere nei soliti luoghi comuni, si riesce a produrre, però quando poi si fa sul serio e occorrono finanziamenti lì escono fuori i limiti, senza dimenticare la mole di burocrazia che è molto lenta, per i trial clinici occorrono permessi e documentazione che portano via molto tempo. Non è una situazione tragica, è una situazione molto migliore di quella che dovrebbe essere per le condizioni in cui ci troviamo. Rispetto agli altri Stati europei, cito la Spagna che ci sta sorpassando, c’è una situazione di sofferenza sotto gli occhi di tutti. – Nelle sue ricerche prende in esame chiamate meso-angioblasti, possono o potranno in qualche modo essere impiegate per correggere malattie acquisite o genetiche? In quanto tempo? Quello che noi abbiamo visto è che queste cellule fanno essenzialmente muscolo liscio, scheletrico o cardiaco. Potrebbero essere quindi impiegate per malattie che coinvolgono questi tessuti, tutto il resto no perché, come dicevo prima, possiamo magari trovare ogni 10mila cellule una che assomigli a un neurone, ma è una curiosità biologica più che uno strumento. Noi sappiamo che queste cellule tenderebbero a fare muscolo liscio della parete dei vasi. Possono in certe condizioni e -stiamo dimostrando- anche naturalmente dare origine a muscolo scheletrico e cardiaco. In altre parole bisogna chiedere a una cellula di fare quello che sa fare, perché solo questo saprà fare bene.
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